giovedì 17 aprile 2008

LA GRANDE ABBUFFATA


Sperando che almeno uno dei miei lettori abbia apprezzato un mio vecchio corsivo preelettorale sulla simpatica storia del partito dell’Ave Maria, da me riportato in questo blog alla vigilia delle recenti elezioni, mi accingo a rievocarne un altro, d’uguale età, scritto sullo stesso giornale, in atmosfera postelettorale. Eravamo nell’anno del Signore 1975, e da qualche mese si erano concluse elezioni amministrative, con il solito risultato lusinghiero per il partito di maggioranza. Ed era stata vittoria tanto gradita, da indurre colui che era allora in città l’indiscusso capo carismatico a festeggiarla con una “grande abbuffata”.
Riporto fedelmente quanto scrissi in quel corsivo.

L’hanno chiamata “A bedda sbafata ”, ed è stata veramente bella, perché originale e divertente. Ma è stata anche favolosa, non tanto per la varietà delle pietanze, quanto per il modo in cui esse sono state cucinate, distribuite, divorate.
Era già sera, un insolito brulichio di gente rompeva la quiete sotto il secolare gelso dei marchesi di Santa Dorotea, nell’incantevole giardino del cav. Nino Cilona. L’occhio discreto dei riflettori nascosti tra le fronde degli alberi , armonizzando con la luce dei faretti delle aiole, metteva in risalto la policromia dei fiori e delle “mezzemaniche”, che la calura di settembre e la rusticità dell’invito avevano consigliato, ai cento presenti, d’indossare al posto della troppo impegnativa marsina.
L’invito, scritto su carta gialla, quella che solitamente serve per avvolgere il pescestocco, aveva parlato chiaro: “U signuri Santaccu avi l’unuri d’invitari vui e a vostra panza, pi sabbatu sei di riustu all’ottu di sira , sutta u ceusu di Nino Cilona, a Cicirata di Baccialona, pi sbafari, addritta comu i cani, un piattu di maccarruni a carrittera, ddu caddozzi i sosizzza e na fedda i muluni: u tuttu nnaffiatu cu vinu bbonu. L’invitu è pirsunali e pi suli masculini. Cu veni menu risica sciugghimentu e duluri i panza”.
Bisognava sfamare la truppa e in un angolo, su due tripodi di ferro sovrastanti le fiamme di ceppi e ramaglie, capienti marmitte, contenenti ben venticinque chili di pasta “cannellina”, bollivano sotto l’occhio arrossato dei cuochi – il mastodontico Luigi Bisignani, secondogenito del cav. Emmo, ed il minuscolo Alfio Romano, più genuino e casereccio del solito con quel “faddale” biancastro prestatogli dal titolare di una rinomata pizzeria cittadina. Una panciuta cesta (cattiddata) nuova di zecca attendeva il momento opportuno per fare, dignitosamente e con…capacità, la parte dello scolapasta.
Nel forno di pietra di donna Maria, intanto, cuocevano venticinque metri di salsicce. Una grossa damigiana, attrezzata di “margherita”, aveva cominciato a distribuire il primo assaggio d’un robusto vino, provienente da vigne “siccagne” di collina.
Ed ecco il fatidico grido di Alfietto:”La pasta è cotta”.
Avvolto in una nuvola di vapore, il baffuto senatore accoglie nella vasta madia di legno la cascata di maccheroni, per poi riempire, con frenetiche mestolate, i cento piatti di plastica, che altrettante mani protendono verso la fumante “madia”.
Si mangia, anzi si divora. E c’è chi fa il bis, il tris.
Il veterinario Genovese protende la mano per ben sei volte e, man mano che mangia, diventa
sempre più vorace. Gli devono mettere davanti la madia con gli ultimi maccherroni – non meno di un chilo – che il medico degli animali divora con impeccabile stile …(omissis). Intanto Michele Stilo, nobile regista tindariano, unico superstite incravattato e in giacca bottiglione, sorseggia un litro di minerale bicarbonata (Ciappazzi?) per digerire quanto… gli altri stanno mangiando. E gli altri mangiano pane e salsicce – dai 25 ai 50 centimetri pro capite – bevono vino, si lavano la faccia con rosse fette di anguria, inzuppano gustose piparelle nel vino bianco di Ciccio Sorrentino. Michele beve e rutta , per loro. Non per niente è regista.”

Qui finisce la “sbafata”, dove sono apparsi personaggi che, quasi tutti tranne due, adesso ci guardano da Lassù.

Francesco Cilona

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